regolamento
Per un piatto di lenticchie

La mancanza dei regolamenti attuativi della legge 508/99 continua da oltre vent’anni a seminare desolazione nell’indifferenza generale, mentre troppi vorrebbero ancora approfittare della sciagurata situazione. Partiamo da questa frase per analizzare lo psicodramma pubblico dei concorsi di sede stabiliti dal DM 180/2023. La legge 508/99 stabilisce la nascita dell’AFAM che, nell’intenzione dei legislatori, avrebbe dovuto dotare l’Italia di una Università delle arti al pari del resto d’Europa. Viene varata a dicembre 1999 senza regolamenti attuativi, che cominciano a vedere la luce a spizzichi e bocconi: ad esempio, solo alla fine del 2018 i Bienni vengono finalmente messi a regime e non sono più sperimentali. Ancora oggi, però, ovviamente, il settore è privo di un regolamento sul reclutamento. Abbiamo parlato a lungo, per esempio qui, dei tentativi di vararlo che sono stati bocciati dal Consiglio di Stato. Fatto sta che è proprio nel buco nero creato da questa mancanza che l’AFAM agonizza da sempre, girando vorticosamente su se stessa senza potersi affacciare all’orizzonte degli eventi: ed è questa mancanza — come evidenziato tra l’altro durante la tavola rotonda tenuta con i Dirigenti del MUR nel nostro primo convegno a Modena — che non consente al sistema di attingere allo statusuniversitario, a cominciare dal riconoscimento giuridico ed economico dei suoi professori.

È proprio al cuore di tutto questo che si situa lo psicodramma di cui sopra. Dal termine degli ultimi concorsi nazionali, indetti nell’ormai lontanissimo 1989, il reclutamento dei professori AFAM è sempre avvenuto attraverso le graduatorie d’istituto e le successive graduatorie nazionali disposte per legge con cui i precari con una data anzianità venivano immessi in ruolo secondo i dettami europei. Tutto questo accadeva mentre si era persa memoria delle immissioni in ruolo ope legis nell’Università, e mentre il settore dell’istruzione primaria e secondaria bandiva regolarmente concorsi a cattedra. Gli unici senza concorsi e, ancor peggio, senza un’Abilitazione Artistica Nazionale che vi regolasse l’accesso — perché privi di un regolamento del reclutamento, ribadiamolo ancora — eravamo noi, che infatti eravamo e siamo i paria del sistema. Ai vari tavoli di dibattito sulle varie leggi 143, 128, 205 e 205 bis — che istituivano le graduatorie nazionali — tutti hanno fatto presente che queste procedure dovevano essere le ultime e che il settore, per il bene delle istituzioni, doveva dotarsi di un apposito Regolamento così come prescritto dalla legge 508/1999. Invece, oggi la situazione è degenerata nel caos, come avevamo scritto. Il DM 180/2023 contiene invece delle opacità. Si sarebbe potuta trovare una soluzione più adatta? Col senno di poi è facile rispondere in senso positivo, e puntare il dito indice della saccenza a basso costo contro gli infiniti problemi e contenziosi che potranno generarsi: difformità dei bandi, titoli di accesso, commissioni impiegate per mesi e mesi di lavoro senza indennità specifiche e sgravio delle ore di didattica, cattedre scoperte, precari in rivolta, difficoltà con le piattaforme per l’inserimento dei dati e via dicendo con la lunga serie di geremiadi troppo spesso assolutamente condivisibili e che farebbero invidia a Geremia in persona. Si perde però di vista la fine di questo sentiero scosceso irto di sassi: l’arrivo a una cima in cui non ci saranno più scuse per negarci l’unificazione con l’Università. Certo, dovremo adottare i criteri di valutazione dell’ANVUR, che tanti di noi supererebbero già oggi ad occhi chiusi. Ma finalmente il nostro riconoscimento economico-giuridico — la nostra dignità di professori certificati all’altezza dei nostri parigrado europei — sarà a portata di mano. Ma quand’è che ce ne faremo una ragione e smetteremo di volerla svendere per un piatto di lenticchie?

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